Le azioni “riscattande” come strumento di exit nell’ambito di operazioni di “finanziamento partecipativo”

26 Ottobre 2023

Le azioni c.d. “riscattande”, note nella prassi anche come azioni “redimibili” o “puttable shares”, consistono in azioni che, al ricorrere di determinate condizioni, attribuiscono ai rispettivi titolari il diritto potestativo di farle riscattare, dalla società e/o dagli altri soci, i quali sono a loro volta obbligati ad acquistarle.

Tali azioni presentano notevoli differenze rispetto alle azioni riscattabili ex art. 2437-sexies c.c., espressamente introdotte dal legislatore all’interno dell’ordinamento italiano con la riforma del diritto societario del 2003. Quest’ultime, infatti, rappresentano azioni per le quali lo statuto prevede un diritto/potere di riscatto a favore della società e/o dei soci. Tale diritto dovrà essere esercitato tenendo conto (i) delle modalità di determinazione del valore delle azioni stabilite per il recesso legale ex art. 2437-ter c.c. e del procedimento di liquidazione delle stesse ex art. 2437-quater c.c. e (ii) nel caso in cui il riscatto venga esercitato da parte della società, delle disposizioni in materia di acquisto di azioni proprie di cui all’art. 2357 c.c.  

Sebbene nell’ordinamento giuridico italiano siano previste particolari ipotesi di riscatto obbligatorio di azioni - si pensi ad esempio all’art. 2355-bis, co. 2, c.c., che sancisce l’inefficacia di clausole statutarie che subordinino il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci in assenza di un obbligo di acquisto delle stesse, a carico della società o degli altri soci (cd. “riscatto convenzionale obbligatorio”) - risulta mancante una disciplina generale riguardante le azioni riscattande. Dottrina e giurisprudenza si sono pertanto a lungo interrogate circa la legittimità di una clausola statutaria che preveda le azioni riscattande. Sul punto, il più recente orientamento dottrinale e notarile ritiene tale clausola statutaria legittima, classificando le azioni riscattande come azioni di categoria speciale ex art. 2348 co. 2 c.c. che incorporano quale “diritto diverso” un’opzione di vendita in favore dei propri titolari, esercitabile nei confronti degli altri soci e della società[1]. Si segnala, tuttavia, un precedente orientamento della Commissione del Consiglio Notarile di Roma[2] secondo cui la società non potrebbe essere obbligata statutariamente ad adempiere all’obbligo di riscatto, in quanto un siffatto obbligo potrebbe comportare l’elusione della normativa in tema di riduzione del capitale della società (art. 2445 c.c.) ovvero del divieto di distribuire utili fittizi (art. 2433 c.c.).

Sulla scorta del suddetto “avvallo” giuridico, le azioni riscattande hanno visto una prima rilevante diffusione nella prassi degli affari, in particolare nell’ambito di operazioni di finanziamento partecipativo di private equity e di venture capital. Ciò in ragione del fatto che tali azioni “consentirebbero di conseguire i medesimi effetti di disinvestimento – totale o parziale – perseguibili attraverso la previsione, all’interno di patti parasociali, di opzioni di vendita (c.d. “put”) ai sensi dell’articolo 1331 c.c.[3], potenziati da una piena opponibilità erga omnes tipica delle previsioni statutarie.

Tuttavia, non sono esenti profili di criticità legati a tale categoria di azioni. Si pensi, in primis, alla determinazione dei presupposti di attivazione della clausola. A tal riguardo, deve ritenersi che sia consentito all’autonomia statutaria individuare liberamente i presupposti dell’obbligo di riscatto, includendovi, in particolare, circostanze soggettive o oggettive, che risultino meritevoli di tutela[4], sussistendo un’unica area di dubbio in ordine all’attivazione della clausola di riscatto ad nutum[5].

Un secondo profilo problematico attiene all’applicabilità in via analogica alle azioni riscattande delle regole dettate in materia di recesso per disciplinare la valorizzazione delle azioni da rimborsare (art. 2437-ter c.c.) e gli aspetti procedurali della liquidazione del valore delle azioni (art. 2437-quater c.c.). Sul punto, l’orientamento prevalente ritiene che non sia applicabile analogicamente la procedura di valutazione delle azioni prevista in materia di recesso, in quanto il socio titolare di azioni riscattande non necessita della medesima tutela prevista per il socio recedente[6], cosicché “lo statuto potrà prevedere criteri di determinazione del prezzo di vendita più penalizzanti e termini di pagamento meno favorevoli rispetto a quelli indicati per la liquidazione della quota del socio receduto”[7].  

Il prezzo di vendita delle azioni riscattande, infine, dovrà essere determinato in modo tale da non violare il divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c., ai sensi del quale è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.

Di conseguenza, la prassi si è attivata elaborando diverse soluzioni che permettano di formulare una clausola statutaria in maniera tale da allocare almeno una parte del rischio di impresa sul socio titolare del diritto di imporre il riscatto. Tra queste, in via esemplificativa e non esaustiva, una parte della dottrina[8] ammette la previsione di una clausola statutaria che circoscriva l’esercizio del riscatto a carico di uno o più soci (priva, dunque, di effetti verso la società) entro un termine prefissato e ad un prezzo predeterminato, pari a quello di acquisto, eventualmente maggiorato di interessi e del rimborso dei versamenti operati medio tempore dal socio in favore della società [9]. In una siffatta situazione, tuttavia, pur non violandosi il divieto di patto leonino, il socio-finanziatore titolare di azioni riscattande potrebbe potenzialmente riversare sulla società e sugli altri soci tutte le conseguenze della propria partecipazione “a tempo”, incidendo con il proprio voto su questioni che continueranno ad impattare la vita della società anche dopo che quest’ultimo sarà uscito dalla compagine sociale. In risposta a questa legittima obiezione, vi è chi in dottrina[10] ha proposto che le clausole che prevedono azioni riscattande siano accompagnate da specifiche limitazioni al diritto di voto su determinate materie, nonché facciano sorgere in capo al socio-finanziatore specifici doveri di correttezza e buona fede “rafforzati” nei confronti dei soci e della società nelle more dell’esercizio del riscatto delle azioni.


[1] Ex multis, BUSANI, in Massimario delle operazioni societarie e degli enti non profit, Milano, 2023, 587; Consiglio Notarile di Firenze, Orientamento n. 67/2018, Azioni riscattande, prezzo di vendita e patto leonino.

[2] Orientamento n. 5/2016 della Commissione del Consiglio Notarile di Roma, in Riv. notariato, 2016, 766: “La relativa posizione passiva incombe sui titolari di azioni ordinarie, e non sulla società, al fine di non eludere la normativa in tema di riduzione di capitale (art. 2445 c.c.) ovvero il divieto di distribuire utili fittizi (art. 2433 c.c.)”. Tale orientamento è stato ritenuto da parte della dottrina eccessivamente rigoroso e tale da svilire il fine economico e sociale di tale strumento. Pertanto, è stato superato dalla Massima 67/2018 di cui supra. Sul punto, si veda COSSU, in Orientamenti Notarili commentati in materia di diritto societario, a cura di Andrea Sacco Ginevri, Roma, 2019, 133.

[3] VITALI, in Trattato delle Società, diretto da V. Donativi, Milano, 2022, 620.

[4] Consiglio Notarile di Firenze, Orientamento n. 67/2018, Azioni riscattande, prezzo di vendita e patto leonino.

[5] Sul punto, si segnala VITALI, in Trattato delle Società, diretto da V. Donativi, Milano, 2022, 622, che ammette la legittimità di una clausola che preveda che l’obbligo di acquisto delle azioni riscattande possa dipendere anche dalla mera volontà del socio titolare delle azioni. Contra, Consiglio Notarile di Firenze, Orientamento n. 67/2018, Azioni riscattande, prezzo di vendita e patto leonino: “(…) in caso di prezzo predeterminato a priori in una misura fissa, pari o superiore al prezzo di acquisto, la validità della previsione statutaria presuppone che il diritto al riscatto sia subordinato al verificarsi di condizioni non meramente potestative”.

[6] Vedi nota n. 2.

[7] L’Orientamento n. 5/2016 della Commissione del Consiglio Notarile di Roma già aveva indicato come criterio di valutazione del riscatto, a titolo di esempio, il “prezzo originario delle azioni, maggiorato di un interesse e decurtato dei dividendi distribuiti, o anche ad un prezzo percentualmente inferiore, al fine di stabilire un floor per l’investitore”.

[8] VITALI, in Trattato delle Società, diretto da V. Donativi, Milano, 2022, 622

[9] Tale approccio particolarmente liberale è stato espressamente ammesso, da ultimo, in relazione ad un patto parasociale, da Cass. Civ. 04/07/2018, n. 17498.

[10] CALVOSA, Azioni e quote riscattabili: delimitazione dei confini di operatività dell’istituto, in Le Società, 2019, 12, 1329.

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