Divieto del patto leonino: esclusione assoluta e costante del socio dagli utili o dalle perdite

28 Dicembre 2023

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25594 del 1° settembre 2023, è tornata a pronunciarsi in tema di patto leonino, precisandone in modo chiaro i presupposti e confermando un orientamento che, ad oggi, può indubbiamente essere considerato prevalente. Nell’ordinanza, i giudici della Suprema Corte hanno ribadito che il divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c., estensibile a tutte le forme societarie, presuppone l’esistenza di una clausola statutaria volta ad escludere in modo totale e costante uno o più soci dalla partecipazione al rischio d’impresa o agli utili, non rilevando, al contrario, esclusioni parziali o temporanee, originate da circostanze estranee al contratto sociale.

La vicenda trae origine dall’esclusione di una S.p.A. dalla partecipazione al rischio di impresa e agli utili di gestione del consorzio di cui era parte congiuntamente ad altre società. L’estromissione era stata determinata da un precedente lodo arbitrale pronunciato in merito agli effetti di un accordo concluso tra un organo del consorzio e soggetti terzi, riguardante le suddette società consorziate e non approvato, né ratificato dalla S.p.A., in seguito esclusa.

Le impugnazioni del lodo, proposte da entrambe le parti, sono state rigettate dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza del 14 dicembre 2018, n. 5630. La vicenda è giunta quindi dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale è stata chiamata a valutare, inter alia, la legittimità della sentenza impugnata nella parte in cui era stata esclusa la nullità del lodo arbitrale per contrasto con il divieto del patto leonino. Sul punto, il consorzio controricorrente ha osservato che la ritenuta inopponibilità dell’accordo alla S.p.A. abbia comportato una vera e propria modificazione dello statuto consortile, andando ad escludere la medesima dalle perdite e dagli utili prodotti dall’attività svolta nel periodo successivo al lodo, in contrasto con le clausole statutarie che prevedevano la partecipazione pro quota di ciascun consorziato ai benefici e oneri dell’attività del consorzio.

Pronunciandosi sul motivo in esame, la Suprema Corte ha evidenziato come tale esclusione della S.p.A. dalla partecipazione ai risultati economici della gestione del consorzio, non contrasti con il principio di ordine pubblico desumibile dall'art. 2265 cod. civ., non trattandosi di un effetto direttamente ricollegabile ad un patto intervenuto tra le imprese consorziate, bensì al giudicato formatosi in ordine al lodo precedentemente pronunciato tra le parti, il quale aveva a sua volta statuito sugli effetti di un accordo concluso con terzi da un organo del consorzio, in contrasto con la volontà di una consorziata e da lei non ratificato.

La Corte ha dunque ribadito i presupposti necessari affinché possa configurarsi il divieto del patto leonino posto dall’art. 2265 cod. civ., chiarendo come esso sia estendibile a tutti i tipi di società, indipendentemente dalla modalità con cui nel concreto si declina, in quanto volto a “preservare la purezza della causa societatis”. In seconda battuta, i giudici hanno osservato la necessità di una situazione statutaria che legittimi il patto medesimo, ponendo in seguito l’accento sul fatto che l’esclusione dagli utili o dalle perdite debba potersi qualificare in termini di assolutezza e costanza.

Con riferimento al primo requisito, l’esclusione del socio, persona fisica o società, deve riguardare “ogni partecipazione agli utili o alle perdite”. Pertanto, la previsione di una partecipazione parziale o proporzionalmente inferiore rispetto a quella degli altri soci non configurerebbe un patto leonino. Circa il requisito della costanza, la Corte ha ribadito che l’esclusione del socio non deve risultare occasionale, non potendosi riferire solamente ad un “periodo circoscritto”, dovendo invece essere tale da comportare una stabile ed effettiva alterazione dello status del socio all’interno della compagine sociale.

Sulla scorta di tali considerazioni, i giudici della Suprema Corte hanno dunque escluso la sussistenza dei richiamati presupposti nella fattispecie in esame, in piena continuità con i precedenti di legittimità dell’ultimo decennio.

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